Il "Vocabolario del dialetto osimano" di Massimo Morroni si compone di due parti: il vocabolario, con circa 12.000 voci del dialetto parlato ad Osimo negli anni Sessanta, ed una raccolta di vecchie cartoline osimane provenienti dalla collezione di Moreno Frontalini (Perpé).
A seguire alcuni brani tratti da questo volume
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El vergaru d’ una ‘o.
Il vergaro di una volta è un’ altra di quelle figure plurisecolari che se ne stanno precipitando nell’ oblio, assieme ad una cultura che consegnamo – giorno per giorno – alla storia. In questa sede, prima di trattare la derivazione del termine – vogliamo soffermarci, anche se per poco, sulle caratteristiche di questo personaggio di ieri, e lo facciamo per mezzo di una colorita descrizione che ne fornisce Luciano Gasparetti, ambientata, nelle campagne filottranesi, identiche a quelle osimane.
‘’ Nelle vecchie famiglie patriarcali contadine, composte di venti, trenta, a volte anche di quaranta persone, appartenenti a più unità familiari, che vivevano e lavoravano nella stessa grande casa colonica, u vergaru era il capo di casa, colui che teneva la verga: un ramoscello diritto e sottile, simbolo del comando. In genere era il più anziano e regnava quasi come un despota su fratelli, sorelle zitelle, nuore, figli e nipoti, che gli dovevano onore, rispetto e obbedienza.
C’ era un detto che, parafrasandone un altro più conosciuto, recitava: ‘’ Non se moe paja che u vergaru non voja’’. Anche per cose di minima importanza, nessuno poteva prendere iniziative senza interpellare u vergaru ed ottenere la sua approvazione. Egli stabiliva come e quando eseguire i lavori nei campi e assegnava i compiti, trattava’’ co u fattò’’ , ‘’ cò u vitrinaju’’ , ‘’ co u patrò’’ , ‘’ co u macellà’’, ‘’ co u spacciatore’’, ‘’ co u mulinà’’ , ‘’co u ruffà’’, ‘’ già au mercatu co a cavalla’’; prendeva insomma ogni decisione che riguardava la famiglia. Soprattutto u vergaru amministrava le finanze comuni, ma teneva i cordoni della borsa ben stretti e raramente scuciva qualche lira. A chi gli chiedeva soldi per cose non assolutamente indispensabili, rispondeva che non ce ne erano.
In realtà la famiglia contadina di una volta era una comunità pressoché autosufficiente, che solo per poche cose si avvaleva di servizi esterni e, quando era possibile, specialmente con gli artigiani, ricorreva al baratto. Un contadino comprava un paio di scarpe e un vestito solo due volte nella vita: quando si cresimava e quando sposava. In quelle occasioni u vergaru tirava fuori i soldi come fossero stille del suo sangue e sospirava :’’ Me mannète a male’’. Qualche membro della famiglia, più insofferente degli altri, per le piccole necessità personali ricorreva saltuariamente al furto. Ogni tanto, non si sapeva come, mancava un’ oca, un coniglio, una dozzina di uova, un salame dalla dispensa. U vergaru sbraitava e minacciava, ma nessuno parlava. ‘’ Sarà stati i zinghiri’’, dicevano. Allora lui nascondeva il gruzzolo familiare in luoghi segreti, che a volte solo lui conosceva. Quando u vergaru moriva, la prima cosa che si faceva era di ‘’ guastà u pajaricciu’’ in cerca dei soldi’’.
La parola ‘’vergaro’’ o ‘’vergaio’’ è diffusa in tutta l’ Italia Centrale; per limitarci alla nostra regione, è presente in tutti i dizionari dialettali ( a Macerata è pronunciata vergà). Bisogna precisare anzitutto che esistono due tipi di vergari: uno, che è chiamato anche ‘’ vergaio’’, ed è il capo di famiglia pastorale ( specie in maremma); un altro, dello solamente ‘’ vergaro’’, che è il capoccia colonico. Per questo si può ipotizzare che il secondo abbia tratto la denominazione dal primo. Comunque, nel XV secolo, troviamo un vergarsi come capo pastore in un documento del 1431 presso l’ Archivio Vaticano ( Diversorum Cameralium, 16, f. 80) e un virgarius ‘’ qui facultates monasterii administrat, vel qui agrorum culturae invigilat’’ ( pressappoco un camaldolese economo) in un’ epistola dell’ abate Ambrogio di quell’ ordine che visse attorno al 1450 ( Du Cange, s. v. ).
Questa parola può aver avuto origine da due sostantivi diversi ed è difficile, se non impossibile, decidere quale sia quello giusto. Nell’ antichità classica romana esisteva già un virgarius, corrispondente al greco rabdouchos, che era il littore, l’ arbitro, l’ araldo, Virgarius derivava da virga, cioè le verghe dei littori, simbolo del potere supremo, come il greco rabdouchos deriva da ràbdos, che significa sempre ‘’ verga’’. Ora sia virga, sia ‘’ràbdos’’ hanno una simile radice indoeuropea’’ urb’’ e ‘’uerb’’, per non dire che sia la stessa.
La seconda ipotesi fa invecce derivare vergarius da vervecarius, colui che il vervex, cioè i montoni. In questo caso sia ha analogia tra vervex latino e arnòs greco, ed entrambi, si ritrovano nel sanscrito ùranah, che vale ‘’ ariete’’.
In sostanza, a sostegno della prima ipotesi abbiamo la presenza della verga come simbolo di comando, mentre per la seconda abbiamo addirittura il nome degli animali. Chi può decidere?