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La Fornace di Moie: una storia mai finita

Premessa

Oltre un secolo fa nella regione Marche esistevano numerose fornaci per la produzione dei
laterizi, della calce e del gesso. Fra tutte, quelle dei laterizi erano prevalenti e, di queste, solo una
piccola parte utilizzavano forni Hoffmann (6 su 60 nella provincia di Pesaro, 10 su 106 in quella di
Ancona, 5 su 123 ad Ascoli Piceno e 7 su 130 a Macerata). Se consideriamo il periodo che va
dall’Unità d’Italia fino agli anni Quaranta del Novecento, gli opifici corrispondenti a questo settore
produttivo presenti sul territorio regionale che sono giunti fino ai giorni nostri appartengono tutti a
quella minoranza, ovvero utilizzavano forni Hoffmann per la cottura dei laterizi.
Le fornaci di laterizi sono state per il nostro territorio importanti realtà economiche che hanno
dato lavoro a tante persone. Un lavoro duro, faticoso, fra l’umidità dell’argilla con cui impastare i
mattoni e il grande calore necessario per cuocerli. Conoscere la storia di questi luoghi significa
anche conoscere la storia di coloro che vi hanno lavorato, dei nostri concittadini che attraverso le
loro testimonianze ci permettono di rivivere un momento importante del passato della nostra
comunità. Il lavoro degli storici locali ci è di grande aiuto proprio per ricostruire il passato delle
fornaci presenti sul nostro territorio, dalle origini al degrado, fino – in alcuni casi – al recupero e
alla riconversione delle stesse.
In particolare prenderò in esame la fornace di Moie la cui riconversione da opificio industriale a
centro culturale è un chiaro esempio di come si possa rivalutare con successo un patrimonio
territoriale che altrimenti andrebbe completamente perduto.

Le fornaci “Hoffmann”: le origini strutturali

Il sistema Hoffmann, a ciclo continuo, venne brevettato nel 1858. Esso introdusse una importante innovazione nelle fornaci e si diffuse rapidamente in tutta Europa, sostituendo i vecchi impianti.
L’utilizzo del forno Hoffmann, che ha fatto la sua comparsa in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento, si è sviluppato nella nostra regione tra gli anni ’80 dell’Ottocento e gli anni ’30 del Novecento. L’utilizzo di questa tipologia di forni portava molti vantaggi: innanzitutto, essendo un forno continuo e quindi sempre acceso, permetteva di risparmiare una considerevole quantità di energia rispetto ai forni intermittenti; in secondo luogo il prodotto cotto era di maggiore qualità.
La tipologia originaria consisteva in una doppia galleria circolare voltata, con una successione regolare di aperture laterali che servivano per introdurre il materiale da cuocere.

Il camino di aspirazione si elevava centralmente rispetto all’edificio caratterizzando l’intera struttura. Le pareti del forno erano in muratura di laterizi pieni, riempiti di sabbia e argilla, e raggiungevano uno spessore notevole; lo spazio della cottura era protetto superiormente da un tetto circolare sorretto da una complessa struttura in legno e da una serie di pilastri in muratura che lo congiungevano al terreno.

In seguito questa tipologia si evolse, pur mantenendo inalterate le caratteristiche formali della galleria, la disposizione del camino e il principio di funzionamento della struttura. Si passò alla forma “ellittica”, o allungata, costituita da due gallerie rettilinee raccordate alle estremità da due gallerie semicircolari di sezione trasversale uguali alle prime (che presentava minori difficoltà costruttive, permetteva un’economia di spazio, ma soprattutto rendeva più agevoli le manovre
interne) e, successivamente, a quella “a teste mozze”, o a gallerie rettilinee, dove scompaiono le estremità semicircolari (che migliora ulteriormente le operazioni all’interno).

Sul nostro territorio regionale l’esempio più antico di fornace di tipo Hoffmann è costituito dall’opificio di Serra de' Conti, che presenta l’originale pianta circolare. La fornace di Moie, che prenderemo poi più
approfonditamene in esame, è invece un chiaro esempio di opificio a pianta ellittica, mentre quella di Cupramontana presenta una struttura a teste mozze.
Queste evoluzioni formali (il passaggio dall’originale forma circolare a quella ellittica e rettangolare) delle strutture furono legate soprattutto alla volontà di rendere l’edificio più efficiente rispetto al processo di produzione.


Le Ciminiere

Le ciminiere venivano progettate e costruite per lo smaltimento dei fumi prodotti dalla combustione dei forni per laterizi. La tipologia costruttiva, le dimensioni e l’altezza venivano studiate in base ai venti della zona dove sarebbe sorto l’impianto, alle condizioni meteorologiche generali della zona e alle temperature dei fumi prodotti. Nelle zone di pianura si potevano avere
ciminiere anche di 60 metri di altezza, mentre nelle zone collinari erano sufficienti altezze di 25-35 metri. Vista la sua posizione a valle, possiamo supporre che l’altezza della ciminiera della fornace di Moie si aggirasse intorno ai 60 metri.
Nonostante non manchino esempi di ciminiere a pianta rettangolare o poligonale, la cui tecnica costruttiva si ispirava alle antiche torri campanarie, le ciminiere erano solitamente di forma circolare. Per la loro costruzione venivano utilizzati mattoni di forma speciale che assicuravano una perfetta circolarità della sezione in modo da garantire maggiore stabilità. I fusti delle ciminiere tendevano a diminuire di diametro man mano che si saliva. Le dimensioni variavano dai 5 ai 7 metri di diametro alla base fino ai 2-3 metri alla sommità, con la camera interna del diametro utile di 1-1,5 metri. Il fusto solitamente poggiava su uno zoccolo robusto in muratura oppure, in tempi più recenti, in cemento armato. La sommità della canna presentava spesso dei coronamenti in muratura con decori di stile classicheggiante: essi avevano non solo lo scopo di abbellire la struttura, ma
anche e soprattutto quello di irrigidire la bocca del camino che, essendo la parte più sottile, era maggiormente soggetta a degrado.



La fornace di Moie: dalle origini al restauro

Nella regione Marche i luoghi di lavoro sono diffusi sul territorio a formare una fitta trama di strutture isolate.

Il loro stato, tranne poche eccezioni, risulta perlopiù essere in una situazione di obsolescenza e incuria. Non manca comunque un esiguo numero di attenti e sensibili interventi progettuali di restauro e recupero dei manufatti territoriali che hanno riconvertito ad altro uso i vecchi sistemi produttivi, insediando in essi nuove attività, e hanno consentito in tal modo la rivitalizzazione delle strutture.

Un significativo esempio dell’attenzione rivolta dall’opinione
pubblica verso il nostro patrimonio, inteso come importante risorsa da difendere e valorizzare, è dato proprio dalla Fornace di Moie, bonificata, ristrutturata e riadattata a Biblioteca Comunale di grande importanza sul territorio e di grande fervore.


La fornace di Moie, come già accennato, è tra quelle dotate di un forno Hoffmann e forse è proprio grazie all’estrema solidità di questo che essa è pervenuta fino a noi nel modo più integro.



La storia della fornace

Il primo accenno alla presenza di una fornace nell’attuale territorio di Maiolati si ha in un atto notarile redatto tra il Quattrocento e il Cinquecento dove si parla di un “fundo fornacis” situato nell’attuale contrada Colmorino lungo la strada provinciale per Cupramontana. Altre fornaci saranno state presenti sul territorio probabilmente anche dal XVI al XIX secolo, ma non ne abbiamo avuto ancora tracce.
La “Fornace da Laterizi” di Moie era stata impiantata ai primi del Novecento dalla Ditta Settimio Fiordelmondo di Jesi, dove la fabbrica di laterizi aveva la sede legale e amministrativa.
Essa divenne operativa intorno al 1907.
Al termine della prima guerra mondiale, intorno al 1918-1919, la fornace fu rilevata dal Prof. Eugenio Mazzarini, a quei tempi Direttore della Banca Cooperativa di Jesi, che la trasformò in un importante opificio dotandola del sistema Hoffmann “a fuoco continuo”, già utilizzato con successo nelle fornaci jesine. Nel 1923 la fornace, sempre sotto la direzione del Prof. Mazzarini, era
considerata una delle più importanti delle Marche. Successivamente fu rilevata dall’Ing. Alfonso Coppetti che la cedette, nel dopoguerra, alla società controllata dal Cav. Adolfo Trevi, la “Formoscatra”. Dopo il periodo bellico la produzione dei laterizi riprese nel 1947, parallelamente alla fornace di Serra dei Conti, gestita sempre dallo stesso Trevi.
La fornace di Moie cessò la propria attività nel 1966 per difficoltà nel reperimento dell’argilla necessaria alla produzione. Essa, tuttavia, non chiuse in quell’anno, ma rimase aperta fino al 1974 svolgendo l’attività di semplice rivendita di laterizi prodotti in altre fornaci.
Chiusa definitivamente l’attività nel 1974, l’area della fornace venne acquistata nel 1980 da Luciana Cesari, Alfio Coppa e Ghita Morici che l’anno dopo la donarono all’Amministrazione Comunale. Venne subito redatto un progetto di recupero dei fabbricati, ma esso prese forma e iniziò ad essere realizzato solo una ventina d’anni dopo, nel 2002 grazie all’accordo tra il Comune e il Consorzio Intercomunale Servizi (C.I.S.) per il recupero dell’intera struttura.


Il restauro

Il restauro totale della fornace venne affidato all’Arch. Nazzareno Petrini. Il progetto prevedeva di destinare gli spazi disponibili a biblioteca/mediateca, centro di aggregazione sociale, caffè letterario e a sede degli uffici del Consorzio sopracitato. Precedentemente nell’area sovrastante la fornace, che in passato veniva utilizzata come cava d’argilla, era stato realizzato un laghetto per la pesca sportiva e, nello spazio antistante la fornace, un parco pubblico.
La struttura della ex-fornace di laterizi rispondeva bene alle destinazioni d’uso previste, sia per l’ubicazione dell’edificio, che si trovava in posizione baricentrica e di facile accesso rispetto allo sviluppo della città, sia per la sua particolarità architettonica. In una relazione, di cui riportiamo un breve estratto, l’Arch. Petrini ne descrive la struttura originale:

“ […] La fornace in esame presenta una forma ellittica e l’epoca di costruzione
risale verso la fine del secolo scorso. Il forno è un tipo Hoffmann a 16 camere, ha
lavorato fino al 1966 e rimane ora completamente abbandonato.
La geometria originaria dell’edificio del forno è composta da un asse di simmetria
longitudinale sul quale si inseriscono i centri delle cinque circonferenze che
determinano la posizione dei due ordini di pilastri. La pianta ha una facciata scandita da
pilastri tra i quali si trovano aperture di modeste dimensioni architravate con
piattabande sormontate da finestre, al piano superiore il motivo viene accentuato dalla
ripetizione delle bucature in simmetria con il piano terra.
La fornace presenta due aree di essiccatoi, uno al piano terra ed uno al primo piano,
in ambienti chiusi ed in adiacenza al forno in modo che il calore di quest’ultimo,
l’irraggiamento delle murature e delle 16 camere, venga sfruttato per il riscaldamento
del laterizio. Le finestre, poste in maniera regolare e seriale tra i pilastri, durante la fase
dell’essiccazione rimanevano chiuse per evitare correnti d’aria, mentre si aprivano alla
fine del ciclo per accelerare il raffreddamento del mattone.
Il solaio del piano superiore è formato da un tavolato di legno, per favorire il
passaggio di calore, e da travi in metallo.
Di particolare interesse rimane l’intero edificio destinato alla lavorazione delle
terre, predisposto per l’installazione delle macchine per la lavorazione dell’argilla. Si
tratta di un edificio di notevoli dimensioni, circa 700 mq. di coperto, e per una buona
parte presenta un’altezza di circa 9 metri. Il fabbricato è stato eseguito con particolare
cura come si nota dalla facciata che si rivolge verso il fronte della cava con l’ampio
porticato ora quasi totalmente tamponato. Sono parti integranti dell’intero complesso la
palazzina uffici, conservata ancora in ottimo stato, e una casa colonica. […] ” 1

Prima dell’intervento di ristrutturazione l’intero complesso era in uno stato di elevato degrado eabbandono, con parti strutturali crollate. Il progetto per la creazione dell’attuale biblioteca ha comportato il restauro del forno e dell’edificio adiacente con opere che ne garantissero la solidità, l’eliminazione del materiale fatiscente e il recupero del materiale ancora utilizzabile o l’utilizzo di materiale simile a quello esistente. I solai e la copertura sono stati realizzati con mattoni di recupero.


Oggi il complesso della ex-fornace di laterizi comprende, come previsto dal progetto, la sede dell’Informagiovani, il caffè letterario e la Biblioteca Comunale “eFFeMMe23”. Nel nome dell’attuale struttura è racchiuso, in un certo senso, tutto il passato di questo luogo. L’acronimo “eFFeMMe23” ha, infatti, un emblematico significato: eFFe indica la fornace; eMMe sta per Moie; 23 come il 1923, anno in cui la fornace di Moie era diventata una delle più importanti fornaci delle Marche, e come il numero civico, a sottolineare il collegamento non colo nominale ma anche fisico fra il nuovo luogo di cultura e il vecchio luogo di lavoro.



Le fornaci: un passato da ricordare

Il lavoro negli opifici

Nelle fornaci di laterizi la lavorazione avveniva in primavera o in autunno affinché i mattoni potessero essiccarsi uniformemente. Poteva avvenire anche in estate se i mattoni restavano protetti da pergole o tettoie.
La manovalanza (trasposto di mattoni, della calce e dell’acqua) nelle fornaci era fatta spesso da donne, ragazzi e bambini.
Talvolta la promiscuità dei lavoratori, uomini e donne, nelle fornaci poteva causare qualche inconveniente. L’autorità responsabile della pubblica moralità – siamo in epoca dello Stato Pontificio – era la Chiesa. Il vescovo di Ancona nel 10 maggio 1771 ordinò di non mandare le ragazze nelle fornaci e nelle fabbriche per non provocare ulteriori scandali. Provvedimenti di questo genere riguardavano la diocesi di Jesi e la maggior parte dei castelli della Vallesina.
Le donne venivano comunque utilizzate come manovalanza nelle fornaci e nei cantieri edili e venivano pagate meno dei colleghi maschi. Esse erano perlopiù ragazze sole o vedove che vivevano in condizioni di povertà e indigenza, che non avevano il supporto di famiglie che le potessero mantenere o avevano mariti inabili al lavoro.
Nelle fornaci, oltre ai “fornaciari”, in alcune circostanze o nei periodi in cui il lavoro agricolo era ridotto, venivano impiegati anche dei coloni che tuttavia per lavorare in fornace dovevano chiedere l’autorizzazione ai proprietari dei fondi che avevano in conduzione. La pena per chi non avesse ottemperato a questo dovere era quella di non poter più entrare nella colonia o di essere espulso prima della scadenza del patto, che durava un anno.

La parola ai lavoratori

Vedere il complesso della fornace di Moie come è oggi, con i suoi uffici e le sue moderne e funzionali strutture, personalmente mi dà una grande gioia. Io stessa ho ricordi di quando ero bambina e giocavo vicino a quei luoghi in completo abbandono. Fin da allora ho sempre considerato un peccato che quell’edificio così grande fosse lasciato inghiottire dalle erbacce.
Vederlo rinascere e riacquistare in una nuova veste la forma originaria mi ha fatto riflettere su come doveva essere stata la vita in quel luogo, in quella fabbrica in cui un tempo si producevano mattoni.
Mi sono spesso immaginata gli operai a lavoro, ma non ho mai conosciuto di persona coloro che avevano vissuto quell’esperienza.
Grazie al lavoro degli storici locali e degli alunni e delle insegnanti dell’Istituto Comprensivo “Carlo Urbani” di Moie, che ne hanno raccolto le testimonianze, oggi mi è e ci è possibile fare un salto indietro nel tempo e, attraverso lo sguardo malinconico degli ex-lavoratori, ripercorrere quelle stanze, compiere quei movimenti e rivivere quei periodi di sofferenza e rinunce, quegli attimi di vita che sono patrimonio invisibile ma preziosissimo per le generazioni moderne.

Elencherò qui alcuni passi significativi di tali testimonianze:

Pietro Tesei, nato il 4 settembre 1929, orfano di padre a soli sei anni racconta di aver iniziato a
lavorare a tredici anni come muratore. Entrò a lavorare alla fornace di Moie dopo la guerra, nel
1946, come aggiustatore meccanico. Ricorda che il lavoro era durissimo per tutti, specialmente nei
primi anni quando tutto veniva fatto a mano dagli operai, anche sgretolare la creta dalla collina in
pieno inverno con il solo uso del piccone. Nel 1950, con la modernizzazione, le cose migliorarono:
fu acquistato un escavatore meccanico e la creta prelevata veniva trasportata con dei carrelli su
rotaie fino al piano superiore dell’edificio, dove i mattoni prendevano forma. Nel 1966, con la
diminuzione dell’argilla, la fornace cessò la produzione. Pietro rimase un altro anno per curare la
dismissione dei macchinari.

Maria Mattioni, nata nel 1922 a Castelplanio, venne ad abitare a Moie quando aveva circa
dieci anni. Ha iniziato a lavorare alla fornace nel 1948 e vi è rimasta per tre o quattro anni. Era una
delle poche donne a fare questo mestiere e ricorda che il suo stipendio, come quello delle altre
donne, era inferiore a quello degli uomini, che svolgevano i lavori più pesanti. Gli uomini che
lavoravano al forno facevano il turno di notte mentre le donne lavoravano di giorno, dalle otto alle
dodici e dalle quattordici alle diciotto (o alle diciannove).

Ersilio Bartoloni, classe 1916, per 16 anni, dal 1947 al 1963, lavorò alla fornace di Moie. I suoi
sono bei ricordi, legati alla gioventù, ma anche ricordi tristi, di periodi duri. Ersilio racconta del suo
lavoro stagionale: la fornace era in funzione solo nel periodo caldo dell’anno (da maggio a
settembre) perché i mattoni dovevano asciugare all’aria prima di essere cotti. A quei tempi il
proprietario dell’opificio era Adolfo Trevi di Serra de’ Conti e Ersilio ricorda con gioia che egli
ogni anno, all’accensione del forno, organizzava una grande festa con gli operai in cui offriva a tutti
la porchetta. Una volta acceso il forno rimaneva sempre in funzione e gli operai, quasi tutti di Moie,
facevano turni di otto ore, dalla mezzanotte. In quel periodo alla fornace lavoravano circa 40
persone, per la maggior parte uomini perché il lavoro era molto faticoso.
La produzione dei mattoni si svolgeva in questo modo: una ruspa prelevava l’argilla dalla
collina vicino all’opificio e, con dei carrelli su rotaie, questa veniva portata al piano superiore
dell’edificio. Qui veniva impastata con acqua e da questo impasto, attraverso una macchina che si
chiamava “mattoniera”, si ricavavano mattoni di diversa grandezza. In un giorno di lavoro gli operai
producevano circa 60.000 mattoni. Ersilio ricorda come le mani di tutti loro erano rovinate, sia
dall’umidità dei mattoni prelevati dalla mattoniera che dal calore di quelli appena cotti che uscivano
dal forno, in quanto ogni passaggio veniva compiuto a mani nude. Lavoravano per 10 lire al giorno
in condizioni pessime e Ersilio racconta che, insieme ad altri operai, venne licenziato per essersi
lamentato per questo. Era un lavoro stagionale che durava dai quattro ai sette mesi all’anno, ma per
loro era la vita, spesso l’unico modo per mandare avanti la famiglia.

Amelia Grottaroli entrò come operaia alla fornace da giovanissima. Lavorò qui per cinque anni
e per un periodo lavorò insieme ad Ersilio. Ammette che era un lavoro faticoso per una donna, ma
racconta di non essersi mai risparmiata nel lavoro. Entrata come sostituta di una ragazza infortunata,
una volta rientrata questa lei venne tenuta fino alla fine della stagione e fu anche richiamata in
seguito. Le sue parole ci fanno capire il grande valore comunitario che il recupero di questo edificio
rappresenta. Le trascrivo fedelmente, così come sono riportate nell’opuscolo “La Fornace, un bene
che torna alla comunità” 2:

“Ogni volta che passo di fronte ai resti della fornace in abbandono mi viene una stretta
al cuore. La vedo ancora popolata di persone, brulicante di voci, col frastuono dei
rumori dei macchinari. Far tornare a vivere la fornace è un regalo per tutta la comunità
ma soprattutto, forse, per quelli che ci hanno lavorato e che potranno di nuovo entrarci:
anche se ci saranno libri e computer invece di coppi e macchine per gli stampi. […]. In
tutto ci ho lavorato per cinque anni. Un periodo che non scorderò mai e che ora, quando
finalmente potrò passare di fronte al comignolo restaurato, mi verrà in mente con meno
malinconia”.

di Simona Bacci

Dettagli interni - Biblioteca

NOTE

1 Ceccarelli Riccardo, La terra e il fuoco. Fornaci in Vallesina, Comune di Maiolati Spontini,
Tipografia UTJ, Jesi 2007; cit. pp 28-29.

2 La Fornace, un bene che torna alla comunità, Comune di Maiolati Spontini, Consorzio
Intercomunale Servizi, Moie di Maiolati Spontini 2002.

 

BIBLIOGRAFIA

Alessia Monti e Paolo Brugè (a cura di), Archeologia industriale nelle Marche. L’architettura,
Regione Marche e Assessorato alla cultura, Ancona 2003.

Ceccarelli Riccardo, La terra e il fuoco. Fornaci in Vallesina, Comune di Maiolati Spontini,
Tipografia UTJ, Jesi 2007.

La Fornace, un bene che torna alla comunità, Comune di Maiolati Spontini, Consorzio
Intercomunale Servizi, Moie di Maiolati Spontini 2002.

Moie: come eravamo... : la storia che ci piace ricordare, Comune di Maiolati Spontini, Istituto
Comprensivo "Carlo Urbani", Tipografia Vallesina, Moie di Maiolati Spontini 2007.

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