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Raul Bartoli nasce a Cupra Montana il 15 febbario del 1910.
Si trasferisce da giovanissimo a Firenze, dove frequenta il Regio Istituto d’Arte. Nel 1922, un documento rilasciato da Angiolo Vannetti, attesta che, “il giovinetto Raul Bartoli” trascorre ogni pomeriggio nello studio dello scultore, al fine di apprendere le tecniche e le pratiche artistico-scultoree. Nel 1925 Bartoli è già apprendista-pittore su vetro alle dipendenze di Guido Polloni, titolare dell’omonima azienda produttrice di vetri d’arte, gestita dai fratelli Guido ed Ezio.


Nello stesso periodo conosce e frequenta Angelo Maria Landi, anch’egli alle dipendenze dei Polloni e maggiore di soli tre anni. Utili all’interpretazione dell’opera di Bartoli, risultano alcuni ricordi relativi al periodo e raccontati dallo stesso Landi, in occasione della pubblicazione del catalogo per l’antologica di Raul Bartoli:

[…] Tanto Guido, quanto Ezio, avevano studiato alla Scuola d’Arti Industriali di Santa Croce ed avevano perciò la pretesa di saper disegnare. Così, mentre Ezio, toccato superficialmente da certi “movimenti” moderni, faceva per proprio conto dei disegni ispirati dai balli di moda, come il “charleston”, Guido aveva invece i piedi ben posati a terra e perciò s’era preoccupato di imparare i “segni” indispensabili ad esprimere, nelle vetrate di chiesa, il dolore, la gioia serafica, l’estasi, etc. Guai a muoversi da quel clichés; guai, soprattutto, a spostare le sopracciglia di un santo collocandole in modo diverso da come le aveva predisposte lui, o a smuovere di “un’ette” le rughe di un volto .

A guardar bene, nell’intera produzione artistica di Raul Bartoli diventa evidente come, quella luce che “attraversa” e illumina i soggetti delle vetrate, oppure, il dettaglio meticolosamente descritto nei ritratti, quale una ruga impercettibile, la smorfia di un labbro o una luce accesa dello sguardo, siano caratterizzazioni scritte a chiare lettere nella “bibbia” formativa iniziata a redigere in tenera età e che, con molte probabilità, Raul ha continuato a “consultare” durante l’intero corso della sua carriera artistica.
La profonda amicizia con il Landi e la loro condivisione di alcune esperienze lavorative e formative, hanno di certo contribuito nel Bartoli a “sciogliere” e liquefare la pennellata come sotto i raggi del sole: la luminosità che diventa chiave di lettura, gli esclusivi contrasti fra ombra e luce che scolpiscono rapidi le forme dei soggetti, tanto che, per tutta la vita, egli stesso continuerà a ribadire di essere uno degli ultimi macchiaioli, magari un po’ fuori tempo, ma un macchiaiolo fiero.
Sempre il Landi, restituisce un bellissimo ricordo del Bartoli giovane, quando con la testa piena di sogni ansiosi, passeggiava per le strade della vellutata Firenze fantasticando di pittura:

Raul Bartoli, e cioè il ragazzo Raul, si presentava in modo appariscente, con un gran ciuffo di capelli arrotolati “a banana” sulla fronte e mi parlava spesso di Cupra Montana e delle Valli dell’Esino e dell’Esinante. […] Mi parlava del suo interesse per il disegno e per la pittura e chiedeva a me, che probabilmente ne avevo più bisogno di lui, tanti consigli.
Raul era e credo sia rimasto uno spirito semplice. Per Raul le cose erano cose e basta e non nidi viperini di problemi da risolvere, non intrichi di timori e di ardori morali ed estetici. Per lui esistevano soltanto i problemi, non facilmente risolvibili, di resa pittorica, di espressività del segno .

Figlio di una famiglia tutto sommato modesta e condizioni storico-economiche non particolarmente favorevoli, lo videro costretto a rientrare precocemente nella sua Cupra Montana, accantonando le varie possibilità che una città come Firenze avrebbe potuto offrirgli. Molti anni dopo però, giustificherà così il suo rientro:

Ho avuto una crisi, mi dicevo “Non posso arrivare dove voglio io”. Mi sono depresso.
Quando andavo agli Uffizi gli occhi mi si riempivano di lacrime. Io che stavo a fare a Firenze? Per me, stare a contatto con la grande arte era un avvilimento.
Non sarei mai riuscito. Ho avuto la mia delusione. Era stata un’avventura. “Voglio cambiare strada e ritorno a casa”. Ma anche ritornato a casa, avevo sempre questa forza, questa smania di pitturare .

 

Tornato a Cupra Montana, inizia a lavorare nella bottega del padre, noto e unico fotografo del paese. Lo stesso Bartoli ammette di non avere un ricordo particolarmente piacevole di questo periodo (tanto che racconta di avere più volte preso in considerazione l’idea di abbandonare cavalletto e pennelli), ma è sicuro che, la necessità di comprendere e sfruttare le potenzialità dell’obbiettivo fotografico, ha influito sulla sua visione della realtà pittorica, includendo e arricchendo i soggetti immortalati nelle tele di quei “tagli” tipicamente fotografici, evidenti tanto nei paesaggi, quanto nelle riproduzioni di scene di paese e nei ritratti stessi.
In effetti, la passione e “la smania” della pittura, soprattutto per quella on plain air (pratica a cui lo stesso Angelo Maria Landi lo aveva avvicinato nel corso della loro lunga amicizia e delle numerose visite al suo studio detto “il Conventino”), molto presto “lo richiamano all’ordine”, riconciliandolo sia con la pratica pittorica, quanto con il paesaggio della sua amata regione e delle sue profumate valli. Proprio durante una di queste uscite, viene casualmente notato da Alighiero Zuccarini (il “longilineo intellettuale” conosciuto anche dal Landi durante la sua visita a Cupra Montana “che recava sempre con sé un libro dattiloscritto lasciatogli dal padre” e che, sembra, non mancava mai di aprire per leggerne alcune pagine), che, da qui in avanti, si fa primo critico e mentore di Raul Bartoli. Infatti, oltre che a fornirgli pennelli e colori e a svolgere il ruolo di “motivatore” (per incitarlo e per convincerlo a credere nelle sue doti pittoriche), divenne anche tramite fra il pittore Raul Bartoli e il “vecchio Puccini” di Ancona che si occupava della vendita delle sue opere. La stessa sensibilità pittorica del Bartoli viene impiegata in soggetti remoti, dove il pulviscolo accumulato nel tempo è componente fondamentale del silenzio di nostalgiche nature morte. Proprio grazie a una di queste dal titolo “Vecchie scarpe” (Figura 1), Raul viene notato e segnalato dalla critica dell’epoca, così, da “pittore dei tetti” (come lo definivano i compaesani) diventa “Il pittore delle scarpe”. Raul comincia a lavorare con grande dedizione, partecipa alle sue prime collettive e si afferma come raffinato colorista quale realmente è. Fu invitato addirittura alla Quadriennale di Roma, ma il suo sogno nel cassetto rimaneva Venezia. Numerosi furono i suggerimenti che gli giunsero da più parti e che lo incoraggiavano a partire per andare a lavorare e a dipingere nella famosa “Quarta sponda”: l’Africa del Nord, ritenuta di grande importanza dal Regime.
E di fatti, nel 1938, parte alla volta dell’Africa alla ricerca di quella fama tanto ambita, in attesa di un posto presso i padiglioni della Biennale di Venezia. Di questo periodo
sono numerosi i ritratti di indigeni, di coloni (fig.re 2 e 3) e di paesaggi africani.
Molte furono le mostre dedicategli e molti i consensi riscossi. La produzione di vedute e ritratti di questo periodo è particolarmente vasta (sono circa trecento le tele che non riuscì a portare in Italia e che fu costretto a lasciare in Africa. Tutt’ora la loro sorte è sconosciuta), e non fu molto il tempo trascorso fino a quando divenne noto come “il pittore del deserto” (fig. 4). Lo stesso Bartoli, nel corso della sua intera produzione, ha continuato a narrare la luce e i colori africani come componente essenziale della sua opera. La pennellata diventa colpo di luce e colore, la scia del pigmento si allarga, sacrificando forse la minuzia, ma rendendo giustizia alle vibrazioni del caldo e delle varie fasi del sole nell’arco della giornata. Così, se nelle vedute e nei paesaggi, ogni riferimento alla forma è dettato dalle numerose e varie gradazioni degli stessi colori, dal loro armonico sodalizio, dal contrasto, o dalla loro differente capacità di assorbire o riflettere la luce, nel ritratto invece, resta essenziale la cura del particolare, i segni sulla pelle o il vagare di una pupilla che non guarda lo spettatore, ma che fissa un punto ignoto oltre la tela acquisendo così, ogni volta, la carica nostalgica, la fierezza e ogni altra sfumatura emotiva di cui Bartoli è capace.
A proposito della luce e dei colori africani, sarà Raul stesso che a 84 anni, nel 1993, racconterà:

 

“Il continente nero mi ha dato la luce. Una luce che qui non abbiamo, la grande forza della luce: io sono
andato in Africa nel ’38 e là sono stato costretto ad abbandonare trecento olii! Quale prigioniero civile poi,
continuai a dipingere. Dipingevo i ritratti degli ufficiali inglesi… ma lo sa che ho attraversato il deserto a
piedi, con gli arabi, da Porto Bardja a Tobruk! I miei anni in Africa li ho vissuti con grande emozione.
Comunque, i miei trecento quadri sono rimasti a Derna: niente da fare, non li ho più potuti portare in
Italia! […] Mi è capitato di tutto. Durante la guerra avrei dovuto fare il ritratto al Federmarshall Rommel,
la “volpe del deserto”, ma è stato chiamato d’urgenza perché era scoppiata una battaglia fra i panzer
tedeschi ed inglesi, così mi è sfuggito di mano il soggetto .

 

 

Al suo rientro in Italia, nel 1947, portò con sé un’esperienza indimenticabile lunga ben nove anni e scandita da periodi unicamente dedicati alla pittura, ma anche di guerra e di prigionia. Per il resto, forse non fu in Africa che trovò la fama che stava cercando, ma è certo che condusse con sé qualcosa di altrettanto importante e di duraturo: la giovane e bella Rosa di Imola, adorata e premurosa moglie che gli sarà accanto per tutta la vita.
Raul Bartoli riprende la sua fervente attività artistica, continuando a dedicarsi ai paesaggi della sua amata terra, agli scorci di paese e alle piccole folle di mercato.
Continua a dedicarsi ai ritratti prediligendo la posa dal vero piuttosto che una fotografia (nonostante avesse molta dimestichezza con essa):

“Per i ritratti voglio la posa. Quasi mai uso la fotografia. […] Quando sono rientrato dalla mia esperienza di Firenze aiutavo mio padre e nei grandi ritratti fotografici ritoccavo lo sfondo. Ma io i ritratti li faccio dal vero, perché mi piace vedere la carne, il sangue che scorre sotto quella carne. Non come fanno molti pittori oggi, che il nudo sembra di cartapesta .”

 

Nel 1952 si trasferisce a Chiaravalle, al fine di facilitarsi in quello che diviene il suo lavoro ufficiale di impiegato presso la Ragionieria regionale dello Stato, ruolo di certo non esaltante per un artista, ma che egli porterà avanti con dedizione fino al suo pensionamento nel 1974. Tuttavia, lontano anche solo dall’idea di abbandonare la pittura, anche nella nuova città adottiva apre un suo studio in via Gramsci, affettuosamente detto “la bottegaccia” e perennemente frequentato dai cari amici, conoscenti e, più avanti, punto di riferimento per i suoi tanti allievi.
Nonostante il Bartoli dica dei suoi concittadini cuprensi: “Mi hanno dimenticato e mi hanno combattuto”, sarà indelebilmente legato alla sua città, così come la sua città natale lo sarà a lui stesso e, innanzitutto, alla sua figura di pittore. La storia e le tradizioni di Cupra Montana sono infatti marchiate dalla mano e dall’ingegno di Raul Bartoli, a partire dalla consolidata e popolarissima “Festa dell’uva”.
Nel 1983, in occasione della 46° sagra, il Municipio e la Pro Loco decidono di consegnare a Raul Bartoli una targa di ringraziamento per il prezioso contributo offerto per anni, talmente tanti che, sembra impossibile risalire all’inizio di questo fruttuoso sodalizio fra il pittore e la sagra. Resta certo il fatto che, ogni edizione, viene scandita e resa unica dall’abilità e dall’inventiva di Raul, a partire dalle locandine e dai manifesti (fig.
re 5, 6, 7, 8), ma essenziale risulta anche l’ingegno nella progettazione e realizzazione dei carri allegorici. Inoltre, una fra tutte, a renderlo padre meritevole di quella che è diventata nel tempo icona di un territorio e con valenza di riconoscibilità internazionale, è l’etichetta per il Verdicchio dei Castelli di Jesi realizzata per la casa vinicola Fazi Battaglia nel 1949 (fig. 9). Dunque, per spezzare una lancia a favore di Raul, ad oggi, è plausibile asserire che, anche se il pittore Raul Bartoli possa realmente aver avuto l’impressione che il suo tanto amato paese l’abbia dimenticato, è pur certo che la storia del suo borgo è indissolubilmente legata al suo nome.
Perennemente innamorato della sua pittura, nel corso degli anni Raul diviene anche insegnante di tecniche pittoriche prima presso il Centro Culturale Polivalente di Chiaravalle e, in seguito, docente per il corso di disegno e pittura dell’Università della terza età con sede a Falconara.
La passione e l’amore per tale ruolo è testimoniato dall’affetto dei tanti allievi che nel tempo gli sono rimasti affezionati e fedeli stimatori, ricordandone, oltre che la profonda conoscenza e la capacità di trasmettere ogni sapere di cui era in possesso, anche la profonda umiltà: questa, soprattutto, sarà perennemente ricordata e riferita da tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sono entrati in contatto con il Bartoli.

 

 


Fra i vari “tagli pittorici” che Raul Bartoli affronta, con l’evidente capacità di differenziare il modo di approccio in base alle necessità del genere (che sia un ritratto, una veduta “a volo d’uccello” sulle colline dell’entroterra marchigiano, o una natura morta), meritano un appunto a parte le vedute di paese, quelle che forse l’hanno reso noto fra la sua gente, se non altro, perché attratti dalla tela solo per il vano tentativo di riconoscersi in quel signore con il cappello e con le mani in tasca, piuttosto che in quell’altro intento a chiacchierare animatamente in una comunissima scena di mercato
paesano.
Sono queste, di fatti, le tele in cui il Bartoli sembra riunire più che mai le sue doti di colorista, ma anche di un perfetto e preparato “tecnico luci”. Ciò che conta non sono né i volti e né i dettagli di una casacca, bensì la postura dei personaggi, le loro azioni guidate, la scenografia di fondo e poi, nell’insieme, l’armonia dei vuoti e dei pieni, delle zone in ombra e di quelle che, il sole accecante, rende pure macchie di bianco ingiallito. Sono queste scene che gli hanno attribuito l’appellativo di “pittore di paese”, anche se, a guardar bene, Raul Bartoli è più un pittore di luoghi affollati e colorati. Sono questi, infatti, a permettergli di sfruttare l’intera tavolozza, di riempire la tela e di far brillare nitidamente i singoli soggetti, proprio come attraverso la
vetrata di un rosone gotico.
Per questo, ogni volto è composto da due o tre macchie di colore magistralmente fuse, ogni persona è in realtà tutti e nessuno, quello che conta è pur sempre il colore: la gamma cromatica attraverso il giusto livello di luminescenza. Le chiacchiere di paese, “le contrattazioni e gli affari che si fanno al mercato” (fig. 10) non sembrano quindi essere il fine ultimo della pittura, ma un semplice mezzo, puro strumento per esprimere il valore totale della luminosità e di quello dei pigmenti.

 

Raul Bartoli è stato per tutta la vita un pittore di profonda umiltà, un profondo amante della sua terra a cui ha dedicato gran parte della sua intera produzione di poesie
pittoriche. È curioso il fatto che, questo “pittore macchiaiolo fuori tempo” – come ama definirsi lo stesso Bartoli - in un episodio, abbia in realtà anticipato di anni l’epoca del flash mob e delle immagini fotografiche dominate da una grande folla di nudi (fig. 11).
“Dopo la spesa” del 1985 è di fatti l’opera di Bartoli più singolare. Realizzata per scherzo, sembra davvero una sorta di manifesto della contemporaneità redatto dal Bartoli:

 

Ma sì! Io li volevo far vedere a tutti nudi! Gli ho tolto gli abiti mentalmente, ed eccoli lì, dopo la spesa… L’ho fatto per una battuta di spirito. Mia moglie Rosa mi ha chiesto cinquantamila lire e mi ha detto: “Cosa vuoi, al mercato ti spogliano, ti levano tutto, con quei prezzi, ti levano anche le scarpe!” Allora mi è venuta l’idea: sono andato anch’io al mercato di Cupramontana e li ho fatti tutti nudi!

 

Il fatto di essere noto per la cura, quasi maniacale, impiegata nella definizione dei soggetti trattati, qualunque fosse la loro natura, e per le sue doti di fine colorista, gli hanno più volte procurato incarichi come restauratore e come abile affrescatore.
Proprio come esecutore di affreschi è stato impegnato a lungo in numerosi palazzi signorili e nel soffitto della chiesa di Santa Maria della Misericordia di Cupra Montana (realizzati nel 1934), dimostrando così una particolare raffinatezza esecutiva anche nel trattare il tema del sacro.

A proposito di soggetti religiosi è giusto citare una delle ultime grandi imprese del Bartoli realizzata nel 1987, quando era già vicino agli ottanta anni. Si tratta di una tela di grandi dimensioni (200x120 cm) realizzata per l’Istituto delle Suore Francescane di Ferentino e raffigurante la Beata Madre Caterina Troiani durante una visione mistica.

Raul Bartoli muore a Chiaravalle nel 1993.

di Laura Coppa

Tratto da “Raul Bartoli: mezzo secolo di pittura.” A cura di Giovanni Maria Farroni e Angelo Maria Landi; Centro
culturale polivalente; MAV Marche arti visive; Comune di Chiaravalle, Jesi 1988; pagg. 23-24.

Tratto da “Raul Bartoli: mezzo secolo di pittura.” A cura di Giovanni Maria Farroni e Angelo Maria Landi; Centro
culturale polivalente; MAV Marche arti visive; Comune di Chiaravalle, Jesi 1988; pagg. 25 e 27.
Da un’intervista pubblicata su “Marche domani”, aprile 1993; a cura di Sigfrid Filippi

Tratto da un’intervista pubblicata su “Ore 12 il globo” di Cesare Baldoni; domenica 21-lunedì 22 febbraio 1993.
Da un’intervista pubblicata su “Marche domani”, aprile 1993; a cura di Sigfrid Filippi

 

Allegati:
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