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Eremo dei Frati Bianchi: vicende storiche di un luogo sacro

Premessa

L’Eremo delle Grotte – conosciuto anche come Eremo dei Frati Bianchi dal candido saio indossa-
to dai Camaldolesi che lo abitarono per più di quattro secoli – costituisce una delle testimonianze
più significative di insediamento religioso alle origini del Cristianesimo nelle Marche. Qui furono
gettati i fondamenti della Congregazione monastica di Monte Corona e qui si diede accoglienza ai
due frati minori che nel XVI secolo fondarono l’Ordine dei Cappuccini.
Il complesso eremitico, abitato quasi ininterrottamente per circa un millennio, è da considerarsi
unico per la storia religiosa della regione nonché luogo mitico, reso noto anche dalla poesia e dai
nostalgici racconti di Luigi Bartolini, artista e letterato cuprense, legato da grande affetto a questa
zona che fu scenario della sua fanciullezza.
L’intento di questa breve trattazione è quello di riportare alla memoria dei “fieri abitanti di Cupra
Montana” (così Bartolini definì i suoi conterranei) e di tutti i paesi limitrofi le antiche vicissitudini
di questi luoghi nonché di farne conoscere la storia a chi la ignora affinché non vada perduta una
parte importante del passato del nostro territorio.

La storia dell’Eremo

Le origini

L’escavazione delle grotte lungo la ripida parete tufacea della Valle del Corvo, una profonda gola
naturale fra Cupramontana e Poggio Cupro, si fa risalire secondo la tradizione ai primi anni dell’XI
secolo. Sempre secondo la tradizione l’Eremo delle Grotte di Massaccio1 fu fondato da S. Romual-
do, al quale venne dedicata una delle grotte ricavate dalla parete suddetta, chiamata in sua memoria
“Cella di San Romualdo”.
Romualdo era un nobile e ricco ravennate entrato giovanissimo nell’Ordine benedettino e ben pre-
sto diventato abate del monastero di S. Apollinare in Classe. Uomo di grande fervore religioso, di-
sgustato dalla rilassatezza dei costumi e dalla dilagante corruzione dei confratelli che, lungi
dall’osservare le loro antiche e rigorose regole monastiche, esercitavano la simonia come un affare
di ordinaria amministrazione, abbandonò l’abbazia e si mise a girovagare per l’Italia oltrepassando-
ne spesso anche i confini. In questo suo peregrinare raccolse ovunque seguaci che, attratti dal suo
esempio, divennero suoi discepoli. Insieme ad essi, ricevuta in donazione dal conte Maldolo di A-
rezzo (forse vecchio amico di famiglia) una vasta zona boschiva nel Casentino, S. Romualdo vi co-
struì il suo primo grande eremo che venne per questo chiamato “eremo di campus Maldoli”, abbre-
viato poi in “Cà Maldoli” e unito infine in “Camaldoli” cosicchè tutti i suoi seguaci vennero chia-
mati “Camaldolesi”. A San Romualdo va attribuita anche la fondazione, lungo la valle dell’Esino,
di altri centri camaldolesi come l’Abbazia di Sant’Elena, costruita alla confluenza dell’Esinante con
l’Esino, quella di Sant’Urbano all’Apiro e quella di S. Salvatore di Valdicastro alle falde del Sanvi-
cino. Proprio in quest’ultima abbazia S. Romualdo si spense nel 1027. Dopo di lui i suoi discepoli
iniziarono a cospargere di eremi e monasteri le colline lungo il corso dell’Esinante. Da qui proba-
bilmente qualcuno, desideroso di condurre vita ascetica e solitaria, decise di inoltrarsi nel territorio
aspro e selvaggio che dal fiume sale verso Poggio Cupro.
Dopo questi primi insediamenti molti furono coloro che si stabilirono in grotte già esistenti o sca-
varono nuove grotte lungo la parete tufacea del fosso dei corvi, così come molteplici furono anche i
motivi che li spinsero ad abitare queste zone nascoste e impervie.

Gli abitanti dell’Eremo

Due virtuosi eremiti
La prima grotta dell’Eremo fu scavata ad una decina di metri di altezza. Proprio questa grotta di-
venne la comoda dimora del virtuoso eremita Giovanni Maris del Massaccio il quale, desideroso di
condurre una solitaria esistenza fatta di preghiere e rinunce allo scopo di procurarsi la beatitudine
eterna, trovò in essa la sistemazione ideale, lontana da occhi indiscreti e al riparo da incontri indesi-
derati. La grotta venne donata a Giovanni Maris il 1° novembre 1294 dal proprietario della parete
dove questa era stata scavata, Giuntolo da Poggio Cupro, con regolare atto notarile stipulato dal no-
taio Giovanni Garunsi. In realtà il b. Giovanni vi era andato ad abitare già diversi anni prima della
predetta donazione e, ormai vecchio, aveva ricevuto aiuto e conforto da un altro eremita suo emulo,
tale Matteo Sabbatini del Massaccio. Questi, scavatosi una grotta accanto alla prima, aveva assistito
il confratello Giovanni fino alla sua morte avvenuta il giorno 11 aprile 1303. Lo stesso Matteo ri-
mase in questi luoghi fino alla propria morte avvenuta l’11 settembre 1320.
Mancano notizie storiche attendibili circa questi due eremiti se non fosse per quelle contenute
nell’opuscolo del dotto sacerdote Francesco Menicucci2, prolifico e puntiglioso storiografo locale.
Secondo il Menicucci i due eremiti appartenevano al monastero camaldolese di San Giacomo delle
Mandriole (attuale convento francescano della Romita), ma abbiamo buoni motivi per pensare che
essi, invece, non fossero camaldolesi in quanto se così fosse stato essi avrebbero ricevuto il loro so-
stentamento dalla vicina comunità a cui appartenevano e non si sarebbero dovuti procurare il cibo
attraverso l’anziana e povera madre del b. Giovanni o mendicando nei dintorni, cosa tra l’altro proi-
bita dalle regole camaldolesi. Più probabilmente i due erano eremiti indipendenti che avevano eletto
la Valle dei Corvi a luogo adatto alle loro scelta di vita.

Le Grotte diventano nascondiglio per i frati braccati dall’Inquisizione
Dopo la morte dei beati Giovanni e Matteo le Grotte conobbero un periodo di abbandono, inter-
rotto probabilmente nella prima metà del XV secolo – fra il 1420 e il 1466 circa – dall’arrivo di
molti fraticelli giunti a Maiolati e nel Massaccio per scampare alle persecuzioni non solo
dell’Inquisizione, ma anche e soprattutto degli stessi francescani, loro confratelli, che avevano ac-
cettato di sottomettersi alla gerarchia ecclesiastica e di osservarne le direttive e per questo chiamati
“Osservanti”. Le persecuzioni iniziarono dopo che papa Giovanni XXII dichiarò eretici i fraticelli a
causa del loro stile di vita povero basato sull’esempio di San Francesco d’Assisi (da qui il nome di
“Spirituali”) e sull’opinione che Cristo e gli apostoli non avessero posseduto nulla né in comune né
in proprio (per questo chiamati “francescani de opinione”). Il suo intento era quello di annientare
ogni opinione contraria all’accumulo di ricchezze e privilegi da parte delle Chiesa. Ne scaturirono
dure repressioni attivate in particolare dai papi Martino V, il quale ordinò la totale distruzione con il
fuoco del castello di Maiolati (tale distruzione venne portata a compimento nell’agosto del 1428 dal
giovane vescovo di Ancona Astorgio Agnesi), e Niccolò V che, intenzionato a debellarli definiti-
vamente, li condannò quasi tutti al rogo.
Rimaste di nuovo deserte, le Grotte vennero affidate a Padre Angelo, Priore della vicina abbazia
camaldolese di S. Salvatore di Poggio Cupro, che le ebbe in custodia fino al 1509, anno in cui le
vendette a tale Antonio da Ancona.

Un uomo venuto da lontano: Antonio da Ancona
Antonio da Ancona (così si faceva chiamare) fu un personaggio tanto enigmatico quanto impor-
tante nella storia dell’eremo.
Giunto alle Grotte del Massaccio si presentò come un povero terziario francescano proveniente da
Ancona e desideroso di vivere in solitudine e preghiera. Saputo però che i francescani non potevano
possedere nulla e dovevano vivere in comunità, non volendo rinunciare alle sue grotte e al gruzzolo
che vi nascondeva, chiese l’ammissione nell’Ordine dei camaldolesi. Nel mese di gennaio del 1510,
dalle mani dello stesso Priore Angelo di Poggiocupo, ricevette l’abito di oblato e si diede un tenore
di vita molto austero. Tutti in breve tempo vennero a conoscenza della presenza di questo strano e-
remita che diceva di essere anconetano ma parlava con un accento diverso da quello degli ancone-
tani, che non avvicinava nessuno e evitava di incontrare chiunque e di parlare di sé, che vestiva da
oblato camaldolese ma non sapeva molto di regole monastiche e di religione e tutti si interrogavano
sul suo passato e diffidavano di lui. La risposta circa il suo sospettoso comportamento ci viene dagli
annali camaldolesi, ove al tomo VIII p. 25 si può leggere: “Questi [Antonio] nato a Recanati, qui in
gioventù aveva preso moglie, ma in seguito, come era noto a tutti, avendola sorpresa in flagrante
adulterio, egli stesso l’aveva uccisa. Essendo Antonio di natura mite e di animo pio, quantunque
poco avesse da temere dalla giustizia terrena, tuttavia non poteva non temere il tremendo giudizio
di Dio…” Macchiatosi di questo reato egli decise quindi di espiare le sue colpe in pace e solitudine,
con sacrifici, preghiere e opere. Come testimoniato dagli stessi annali camaldolesi e riportato dal
Tesei, frate Antonio da Ancona, a sue spese e con le proprie fatiche “…non poco ornò tale valle si
negletta già e perciò assai sconciata, imperciocché poco lungi dall’antro dov’ei dimorava, un altro
scavonne con grande stento, ed alle falde della rupe fece degli orticelli a fine di seminarvi gli er-
baggi per sostentarsi”3 Oltre a questo, per meritare ancora di più il perdono di Dio, nel 1515 decise
di scavare una grotta più grande delle altre e adattarla a oratorio da dedicare ai b. Giovanni e Matteo
suoi predecessori. Nel 1516, portato a termine questo progetto, trasformò l’oratorio in una vera e
propria chiesetta e lo dotò di una campana e di una pala d’altare in terracotta invetriata raffigurante
in alto la Madonna con in braccio il bambino, circondata da angeli, e in basso S. Giovanni Battista e
S. Romualdo, con accanto i beati Giovanni e Matteo (fig. 1).
Nel 1516 Antonio, ormai rinfrancato, cedette le Grotte al Capitolo generale dell’Ordine camaldo-
lese facendole diventare così parte integrante dell’Ordine stesso a cui saranno assoggettate gerarchi-
camente, disciplinarmente ed economicamente.

La nascita di nuove Congregazioni

Una nuova compagnia eremitica: la “Compagnia romualdina”
Nel 1510, all’età di 34 anni, entrò nella congregazione eremitica camaldolese il ricco e colto pa-
trizio veneziano Tommaso Giustiniani, detto Paolo. Divenuto “Maggiore”, ossia capo dell’eremo di
Camaldoli, nel 1519 dichiarò l’intenzione di ripristinare l’antico rigore eremitico camaldolese e a
tale scopo l’anno seguente si recò a Roma da Leone X. L’iniziativa venne accolta benevolmente ed
elogiata dal papa; non furono dello stesso parere gran parte dei confratelli, che privilegiavano
l’attività cenobitica a quella eremitica. Bisogna ricordare, infatti, che non tutti i seguaci di San Ro-
mualdo avevano scelto di vivere negli eremi. I più scelsero di vivere in cenobi costruiti all’interno
delle mura cittadine o in monasteri benedettini rimasti vuoti.
Sempre più contrastato dai confratelli, nel settembre del 1520 il Giustiniani decise di lasciare il
ruolo di Maggiore e abbandonare l’eremo di Camaldoli con la promessa di non farvi più ritorno.
Viaggiò in molti luoghi e infine si ritrovò nelle Grotte del Massaccio, dove venne accolto fraterna-
mente da Antonio da Recanati (Antonio da Ancona). Considerando questo luogo rispondente ai suoi
ideali eremitici, l’11 gennaio del 1521, dopo aver gettato le basi della sua nuova compagnia, chiese
la donazione delle Grotte di Massaccio da parte degli eremiti, donazione portata a termine il 3 giu-
gno seguente. Giustiniani fece confluire nelle Grotte i suoi seguaci e il 22 luglio 1522 li vestì
dell’abito bianco tipico dei camaldolesi. La nuova compagnia, che prese il nome di “Compagnia
degli eremiti riformati di San Romualdo” o più brevemente “Compagnia romualdina”, era inizial-
mente composta da una dozzina di componenti e già verso la fine del 1522 comprendeva ben cinque
eremi: oltre alle Grotte del Massaccio, ne facevano parte S. Gerolamo di Pascelupo (o eremo di
Montecucco), S. Leonardo al Volubrio (o eremo dei Sibillini), S. Benedetto del monte di Ancona e
S. Maria dello Spirito Santo in Larino. Nel 1523 l’iniziativa di Giustiniani si poteva considerare rea-
lizzata: divennero suoi seguaci numerosi eremiti girovaghi e liberi (detti eremiti selvatici), religiosi
di Camaldoli e di altre congregazioni che spesso portavano in dote priorati e altre Chiese di buona
rendita.
La compagnia fissò la sede principale nelle Grotte di Massaccio perché in posizione centrale ri-
spetto ai vari eremi sorti tra Marche e Umbria e con il primo capitolo generale, celebrato il 15 gen-
naio 1524 nell’eremo di S. Benedetto sul Monte Conero, si diede una regola articolata in 26 capitoli
comprendenti vari precetti morali, religiosi e disciplinari destinati a regolare la vita quotidiana e ad
accrescere la spiritualità di ogni eremita.
Negli anni successivi Paolo Giustiniani si adoperò molto per far ottenere alla sua compagnia quei
benefici di cui godevano le altre congregazioni che operavano sotto la regola di S. Benedetto. Ac-
colto benevolmente da papa Clemente VII, questo capo carismatico e colto ottenne tutti i privilegi,
ma durante i suoi viaggi, prima a Roma e poi a Viterbo, contrasse la peste. Morì il 28 giugno 1528.
La morte del loro priore non scoraggiò gli eremiti riformati di S. Romualdo che, anzi, aumentarono
il loro impegno per affermare e espandere la compagnia. In un nuovo capitolo generale, convocato
nel giugno del 1530 nella Badia di Fratta, alle falde del Monte Corona, venne proposto di dare un
nome definitivo agli eremiti riformati di S. Romualdo. La consuetudine suggeriva di chiamare le
compagnie di regola benedettina con il nome del primo eremo o monastero fondato dalle stesse. Ne
nacque una disputa: alcuni suggerivano quello delle Grotte del Massaccio, dal momento che lo stes-
so Giustiniani aveva più volte scritto e dichiarato che il primo eremo da lui fondato era da conside-
rarsi quello delle Grotte; altri quello di S. Gerolamo da Montecucco o di Pascelupo. Probabilmente
la controversia tra questi due eremi fu deliberatamente suscitata dallo stesso Giustiniano da Berga-
mo proprio per escludere entrambi gli eremi da una pretesa supremazia, con lo scopo di pilotare la
scelta sulle proprietà intorno alla Badia, considerata una zona migliore per posizione, con una vasta
e fertile pianura che assicurava una enorme fonte di sostentamento. Approvata la proposta, ebbe su-
bito inizio la costruzione del grandioso eremo di Monte Corona il quale, terminato intorno al 1533,
divenne la nuova la sede centrale di tutta la compagnia romualdina che da esso prese il nome defini-
tivo di “Congregazione degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona” abbreviato in “Eremiti Coro-
nesi”.
Molto probabilmente se non fosse scomparso tanto prematuramente (a 52 anni), il Giustiniani a-
vrebbe nominato la sua compagnia “Congregazione degli Eremiti Camaldolesi del Massaccio” ab-
breviato in “Eremiti Massaccesi”.

I fratelli Tanaglia: da fuggiaschi a francescani “Cappuccini”
Il 1526 fu un anno memorabile per gli eremiti riformati di San Romualdo, non solo perché fu il
primo anno in cui si celebrò un capitolo generale nelle Grotte di Massaccio, ma anche e soprattutto
perché vi furono due visitatori che avranno un ruolo importante nella storia religiosa della regione e
non solo.
Ludovico e Raffaele Tanaglia, due fratelli appartenenti ad una nobile famiglia di Fossombrone,
abbandonata la carriera delle armi avevano deciso di aderire all’Ordine francescano
dell’Osservanza. Trasferitisi dal convento della Romita a quello dell’Osservanza di Fano, però, no-
tarono una tale rilassatezza di costumi e una tale inosservanza della disciplina francescana che deci-
sero di cercare una comunità eremitica dove poter condurre vita ascetica. Venuti a sapere che nel
fosso dei corvi si era insediata una nuova compagnia di eremiti camaldolesi creata e guidata da un
uomo colto, autorevole e prestigioso vi si diressero per sfuggire all’inseguimento dei confratelli
dell’Osservanza che volevano ricondurli all’ovile. Inizialmente accolti con piacere dal Giustiniani
stesso, intenzionato a farne suoi discepoli, vennero successivamente allontanati e inviati nel recon-
dito eremo di Montecucco con la speranza che presto se ne andassero per i fatti loro. Questa deci-
sione, presa dal capitolo generale del 25 aprile, fu dettata dal timore di tirarsi addosso odi e inimici-
zie. La compagnia romualdina era ancora troppo debole per poter contrastare l’aperta ostilità degli
Osservanti e il capitolo si vide quasi costretto a prendere questa decisione che si potrebbe definire
codarda, ma che fece scaturire eventi importanti. Se non fossero stati rifiutati dagli eremiti romual-
dini, infatti, i fratelli Tanaglia non avrebbero ripreso il loro girovagare, non sarebbero giunti a Ca-
merino e non si sarebbero mai aggregati a Matteo da Bascio, frate francescano dell’Osservanza pro-
tetto da Caterina Cybo, reggente del ducato di Camerino. Insieme a Matteo e ad altri religiosi indi-
pendenti o girovaghi, i fratelli Tanaglia iniziarono una predicazione itinerante a sfondo miracolisti-
co e consolatorio, vivendo di elemosina. Il loro primo alloggio fu il piccolo convento di Arcofiato
nei pressi di Camerino che venne poi sostituito da quello più grande di Renacavata, tuttora esistente.
Grazie all’appoggio di Caterina Cybo, ottennero da papa Clemente VII il riconoscimento legale di
“Frati minori della vita eremitica” e si sarebbero dovuti chiamare “Frati francescani” se non avesse-
ro scelto come abito un saio di colore bigio con un lungo cappuccio che gli valse il nome di Cap-
puccini.
Dopo Caterina Cybo i frati Cappuccini furono protetti da Vittoria Colonna che li aiutò economi-
camente e ne fece i più riconoscenti sostenitori dell’aristocrazia nonché i più fanatici difensori della
tradizione e dell’integralismo cattolico.

Verso il disfacimento e la chiusura dell’Eremo

Disfacimento strutturale
L’eremo delle grotte era un eremo di scarsa capienza e soprattutto di scarsa solidità, compromessa
continuamente da frane e smottamenti. L’escavazione delle grotte durante i secoli, con il conse-
guente pareggiamento delle asperità e delle sporgenze, nonché il distaccamento di lame tufacee a-
vevano ridotto gli appoggi per le radici dei grandi lecci posti sulle pareti sovrastanti le celle. Nel
1780 dalle pareti a strapiombo si erano staccate frane che avevano ostruito gli accessi all’eremo im-
pedendone la funzionalità. Inoltre, a causa di piogge abbondanti, le acque del ruscello di fondovalle
avevano reso impraticabile la strada d’accesso e distrutto il muro di sbarramento che serviva da
clausura.
L’impossibilità di porre rimedio entro breve tempo alla situazione costrinse alla decisione di co-
struire un nuovo eremo non molto lontano dalle Grotte, in una zona di più facile accesso. Sembrò
luogo adatto un terreno, già di proprietà dell’eremo delle Grotte, situato a metà strada tra Maiolati e
Monte Roberto: il Colle Bellavista, oggi Colle Celeste. Il progetto per la costruzione del nuovo e-
remo, ordinata con decreto del Tribunale della congregazione coronese in data 28 giugno 1782 (fig
2), venne affidato al valente architetto massaccese Mattia Capponi. Nonostante il beneplacito del
vescovo di Jesi, Ubaldo Baldassini, il trasferimento venne ostacolato dalla rabbiosa reazione dei
massaccesi che non volevano che i frati bianchi, orgoglio e vanto del paese, si spostassero nel terri-
torio del vicino e antagonista castello di Maiolati. Ne conseguì una lite che costrinse gli eremiti del-
le Grotte a servirsi di un avvocato curiale per difendersi e ottenere dalla Sacra Congregazione dei
Vescovi e dei Regolari il permesso per costruire l’eremo. La causa presto divenne gigantesca e assai
dispendiosa e si protrasse per molto tempo (gli atti di questa complicata vertenza giudiziaria si pos-
sono trovare rilegati in un volume di circa 300 pagg. dal titolo “De translatione eremi criptarum
Massatii” di Francesco Menicucci, attualmente conservato alla biblioteca di Cupramontana). La di-
sputa si concluse grazie al provvidenziale intervento del nuovo Priore dell’Eremo, P. Apollonio
Tucchi, esperto di architettura, che propose di ampliare e ristrutturare il vecchio Eremo delle Grotte.
Se i frati bianchi fossero riusciti ad abbandonare l’Eremo per trasferirsi sul Colle Bellavista di
Maiolati forse oggi non avremmo che labili tracce della sua presenza e sarebbero andate perse per
sempre valide testimonianze della bellezza, particolarità, storia di questo luogo pieno di tradizione e
santità.
Ritornati nelle loro Grotte dopo il restauro, i frati posero sopra la porta di accesso, per decisione
del nuovo Priore, una grande lapide con una incisione (fig. 3) allo scopo di tramandare ai posteri il
passato dell’Eremo. Oggi a causa degli atti di vandalismo e dell’incuria la lapide è andata in fran-
tumi, ma fu importantissima per la storia di Cupra Montana non solo perché permise ai visitatori e
agli stessi eremiti di non dimenticare il ricco patrimonio religioso e storico lì custodito, ma anche
perché consentì agli storici di comprendere che proprio lì sorgeva l’antica città picena che nel IX
secolo aveva perso il suo bel nome per acquisire quello di Massaccio. L’antico nome “Cupra Mon-
tana” verrà ripristinato nel 1861 dopo l’avvento del Regno d’Italia.

Brutti tempi per le confraternite
Appena terminato il restauro della vecchia sede i frati bianchi dovettero fronteggiare nuovi osta-
coli. Dopo lo scampato pericolo di soppressione a seguito della decisione di Innocenzo X di elimi-
nare tutte le piccole comunità religiose, essi vennero raggiunti dal decreto napoleonico del 1810 con
il quale si intimava di chiudere confraternite, eremi, monasteri e abbazie dove il numero dei religio-
si fosse inferiore a 24. La soppressione imponeva l’abbandono dei monasteri e la chiusura delle
chiese annesse ad essi. I frati bianchi, che erano non più di una dozzina, i camaldolesi e i vicini
francescani furono costretti a tornare dalle loro rispettive famiglie. Dopo il 1820 furono di nuovo
autorizzati a rientrare nelle loro sedi, ma essi riprenderanno possesso delle Grotte solo dopo il 1822.
Con l’avvento del Regno d’Italia le sorti dell’Eremo furono definitivamente compromesse. Il 3
gennaio 1861 il Commissario straordinario Lorenzo Valerio emise, nelle Marche, un decreto con il
quale sopprimeva nuovamente gli Ordini, le Corporazioni, le Congregazioni e ordinava l’immediato
sgombero dei fabbricati. Mentre i camaldolesi cenobiti del monastero di S. Lorenzo lasciarono qua-
si subito il loro monastero, i camaldolesi eremiti delle Grotte rimasero tranquilli nelle loro celle
(forse perché non sollecitati ad abbandonare l’eremo, forse per la volontà di opporre resistenza ad
un ordine che consideravano ingiusto e malvagio o, più semplicemente, perché si affidarono alla
Divina Provvidenza) pur sapendo che il termine ultimo per abbandonare la loro sede era stato fissa-
to per il 1° gennaio 1867. Sospettando che i religiosi non avessero intenzione di rispettare tale ter-
mine, le autorità civili nominarono dei commissari demaniali che provvedessero ad espellerli, se
necessario, anche con la forza. La notte del 31 dicembre 1866 questi commissari si presentarono
nell’eremo e gettarono letteralmente gli ignari e spaventati eremiti giù dai loro giacigli. La stessa
sorte toccò anche ai francescani della Romita. La notte di S. Silvestro di quell’anno fu una notte
tremenda per i frati bianchi e neri che si videro costretti a vagare per le campagne circostanti in cer-
ca di ospitalità.
Il mattino seguente le grotte dell’Eremo dovettero assistere ad un ulteriore testimonianza della
meschinità umana: saputo che il fosso dei corvi era rimasto incustodito, gli abitanti dei dintorni vi si
precipitarono all’alba per poter fare man bassa di quanto potevano consumare o riutilizzare. Fortu-
natamente, essendo quasi tutti analfabeti, non si curarono della biblioteca cosicché i numerosi incu-
naboli e scritti lì conservati non andarono distrutti o dispersi.

Novecento: l’Eremo chiude definitivamente
Nelle Grotte e in molti eremi sparsi in Italia i religiosi andarono progressivamente diminuendo. La
carenza vocazionale e la diminuzione delle risorse economiche furono tra i motivi principali che
spinsero i dirigenti della Congregazione a disporre la chiusura delle strutture più fatiscenti e disagia-
te. Nel 1925 fu presa la decisione di chiudere anche i due eremi considerati la culla della compagnia
romualdina: quello di S. Giacomo di Montecucco e quello delle Grotte. L’abbandono di
quest’ultimo avvenne gradualmente e si protrasse fino al 1928. Dopo una decina di anni esso, ormai
vuoto, venne venduto ad un privato cittadino di Cupra Montana al prezzo di L. 25.000. L’acquirente
intenzionato a valorizzare ed utilizzare la struttura ne adibì una parte ad abitazione per una famiglia
colonica. Questa soluzione, che potrebbe sembrare non appropriata, ebbe il vantaggio di poter vigi-
lare sul’eremo preservandolo così da atti di vandalismo e saccheggi che invece ebbero luogo una
ventina di anni dopo, quando la famiglia migrò e l’eremo rimase definitivamente incustodito.

Nel 2000 l’associazione Eremo srl. ha attivato importanti lavori di ristrutturazione dell’Eremo. Que-
sto ha permesso di recuperare e riutilizzare questa imponente e suggestiva struttura che in più occa-
sioni è stata sede di congressi, eventi culturali, mostre e cerimonie di prestigio.

I “Fraticelli” tra santità e eresia

Nel narrare le vicende dell’Eremo delle Grotte di Cupra Montana ho precedentemente accennato
alla presenza in esso dei fraticelli, qui rifugiatisi per sfuggire alle persecuzioni poste in atto a segui-
to delle accuse di eresia avanzate contro di loro da papa Giovanni XXII. Le imputazioni riguardaro-
no prevalentemente il campo delle nefandezze morali e delle azioni lussuriose, terreno facilmente
percorribile non avente altro scopo che quello di gettare fango su coloro che nei secoli XIV e XV
vennero considerati, a causa dei loro ideali di povertà, un pericolo per la sempre più ricca e corrotta
Chiesa che temeva azioni sovversive verso le istituzioni.
Ancora oggi gli studiosi locali continuano a interrogarsi sulla veridicità di tali accuse e numerosi
sono state le giornate di studio e i convegni organizzati intorno a questo tema. Qualunque sia la ri-
sposta alla questione concernente la santità o l’effettiva condotta eretica dei fraticelli il compito di
questa breve trattazione non sarà tanto quello di condurre ad una univoca soluzione (compito al-
quanto difficile considerando il fatto che le stesse fonti riguardanti tale movimento religioso sono
tra loro discordanti, basti pensare al “Dialogo contro i fraticelli” di Giacomo della Marca4 – scritto
fortemente polemico – contrapposto ad altri documenti prettamente favorevoli), quanto quello di
approfondire un aspetto importante del passato religioso della nostra provincia.

Cenni storici

Prima di analizzare i capi di accusa è utile fornire una breve presentazione storica del movimento
religioso dei Fraticelli: essi nacquero da una separazione dal movimento degli Spirituali, sviluppa-
tosi intorno al 1274 come reazione alle voci, rivelatesi poi false, che imponevano ai francescani
l’uso della proprietà in comune mentre essi si caratterizzavano proprio per il rifiuto di ogni possesso
sia personale sia comunitario. La cesura tra i due movimenti viene fatta risalire al 1318, anno in cui
gli spirituali vennero mandati al rogo per essersi rifiutati di sottomettersi alle autorità ecclesiastiche
e aver ostinatamente portato avanti le loro convinzioni. I fraticelli nacquero proprio come risposta a
questi eventi; furono l’esito della contrapposizione, delle drammatiche lotte e delle conseguenti
condanne che colpirono i seguaci dell’Ordine dei Minori.
In base ai loro precetti religiosi occorre dividere i fraticelli in due gruppi distinti: i fraticelli “de
paupere vita”, coloro che portarono all’estremo le posizioni degli spirituali con la loro volontà di
seguire alla lettera la Regola di San Francesco d’Assisi al di fuori di ogni finzione giuridica che di-
chiarasse povero un ordine i cui membri non conducevano vita povera, e i fraticelli detti “de opi-
nione” (o “michelisti”), anch’essi in disaccordo col papato e condannati come eretici perché difen-
devano l’opinione del loro capo, fra Michele da Cesena, secondo cui Cristo e gli Apostoli non ave-
vano posseduto nulla, né in proprio né in comune, e affermavano che il più alto grado di perfezione
evangelica consisteva nel rinunciare ad ogni possesso dal punto di vista giuridico (erano infatti am-
messi i possedimenti dal punto di vista pratico dato che, secondo loro, questo non li faceva venir
meno al loro voto di povertà in quanto tutti i beni che usavano appartenevano giuridicamente alla
Chiesa Romana).
Fu soprattutto su quest’ultima posizione che si fondò uno dei capi d’imputazione della condanna
all’eresia.

Le accuse

Durante il Convegno tenutosi a Cupra Montana il 3 ottobre 1997 intorno al tema della santità o
dell’eresia dei fraticelli, Alfonso Marini, docente dell’Università “La Sapienza” di Roma, ha espo-
sto una sommaria analisi delle accuse mosse contro i fraticelli. A questa analisi mi appoggerò per
approfondire meglio la questione.
Il primo capo d’accusa che Marini prende in considerazione è propriamente quello basato sulla di-
sputa dottrinale sorta intorno alla povertà di Cristo e degli Apostoli. Secondo la sua analisi la posi-
zione francescana risulta errata in quanto, come fa notare, dai Vangeli appare evidente che Cristo e
gli Apostoli, pur nella loro povertà, hanno posseduto qualcosa in comune. Da essi infatti non risulta
che Cristo elemosinasse, come invece scrive San Francesco. Come spiegare allora le tesi, a cui si
rifacevano soprattutto i “michelisti”? Una soluzione ci arriva dallo stesso Marini, il quale intende la
posizione francescana di difesa della povertà assoluta come difesa della “possibilità storica di es-
sere poveri in una Chiesa ricca, di non accumulare beni e potenza come era avvenuto nei seco-
li…”5. Insomma chiedere di identificare la povertà evangelica con il non possedere nulla, nemmeno
in comune, significava cercare di evitare di possedere troppo e di ridurre la povertà a mera teoria o
finzione giuridica. Il punto per i fraticelli non era soltanto quello di non possedere beni, punto co-
munque fondamentale, ma anche e soprattutto quello di fare un uso povero dei beni dati. Questa po-
sizione non era naturalmente accolta da papa Giovanni XXII per il quale la povertà evangelica non
esisteva in quanto non giustificata dai testi sacri. In base a quanto detto potremmo affermare che, di
fronte al Vangelo, Giovanni XXII non può essere definito eretico per aver negato la povertà assolu-
ta di Cristo, mentre lo possono essere, se vogliamo, i fraticelli anche se soltanto per un errore di in-
terpretazione (non dottrinale), ma secondo la lettera.
La seconda imputazione è l’accusa ricorrente di mancata obbedienza alle autorità e allo stesso pa-
pa. Anche se, secondo le posizioni più rigoriste, la prima obbedienza va data alla Regola ed al Van-
gelo, dobbiamo anche considerare che la povertà andava comunque subordinata all’obbedienza in
quanto quest’ultima era stata promessa all’atto della professione religiosa e predicata dallo stesso
San Francesco. Bisogna tuttavia sottolineare che la ribellione non può essere equiparata all’eresia,
come invece avvenne abitualmente nel Medioevo.

L’accusa più infamante: la lussuria

Ho finora trattato in modo generalizzato delle accuse rivolte ai fraticelli. Ritengo opportuno ora
avvicinarmi alla zona di nostro interesse, quella del centro Marche e, più specificatamente, quella di
Cupramontana e Maiolati.
Le radici più lontane del movimento dei fraticelli in Italia vanno ricercate nel contesto del ben più
vasto fenomeno europeo conosciuto come Movimento del Libero Spirito, movimento estremista le
cui manifestazioni eretiche di tipo sessuale possiedono tutto un corollario pratico, ben immaginabi-
le, che spesso tocca l’aberrazione. Gli esempi più calzanti ci vengono offerti dagli scritti dei begardi
Giovanni Hartmann e Konrad Kanneler in cui sono esposte alcune regole seguite dai frati del Libero
Spirito. Si parla di rapporti carnali tra questi e le sorelle, le madri o giovani vergini descrivendoli
come naturali e perdonabili da Dio per la semplice appartenenza dei frati stessi al Movimento del
Libero Spirito; si definisce l’atto sessuale “delizia di Paradiso” e lo si associa al fenomeno mistico
dell’ascesi; si afferma che qualora una giovane non più vergine, perché violata da altri, si fosse uni-
ta con un frate del Libero Spirito questa avrebbe recuperato la verginità perduta. In Italia si registra-
no fatti analoghi a questi tra i Fraticelli dell’Opinione di Maiolati. Essi proclamavano che l’unione
carnale conduceva alla vita eterna e, a favore di ciò, si accoppiavano con le loro donne dopo la mes-
sa; credevano anch’essi che una simile condotta fosse lecita perché la consideravano addirittura una
atto di carità.
Queste sette sono da considerarsi una deviazione del fenomeno del fraticellismo di cui abbiamo
trattato in precedenza. Ricordiamo, infatti, che quello dei fraticelli fu un movimento nato dal desi-
derio di reagire alla potenza gerarchica della Chiesa e alla sua corruzione. Da questo desiderio si
crearono due “gruppi”: alcuni religiosi agirono di necessità, come i primi che vissero con S. Fran-
cesco, e si riunirono insieme ai loro seguaci a formare comunità autonome, semplici e povere di be-
ni ma ricche di fede; altri, non resistendo allo stile di vita povero basato sul sacrificio, deviarono: la
loro devozione e la loro fede divennero solo una facciata per attuare continue richieste di denaro
travestite da elemosine con cui acquistare case, terreni, boschi, chiese in cui organizzarsi in forme
gerarchiche. Gli stessi frati Maiolatesi avevano eletto una gerarchia – con un papa (un certo Ranal-
do, prete eretico), una papessa, un vescovo e una vescovessa, frati e suore – che orbitava intorno ad
una chiesa debitamente attrezzata. Qui i frati si macchiarono di reati quali stupri e adulteri e, qualo-
ra questi rapporti fossero stati fecondi, anche di omicidio delle neonate creature durante delle vere e
proprie “messe nere”. Questi riti, praticati apertamente a Maiolati già da tempo e a Cupramontana
in relativo segreto, avvenivano da anni in regioni quali Piemonte, Lombardia, Toscana e Lazio e in
alcuni comuni delle Marche come Fermo e Macerata. Fonti e documenti riportano testimonianze
agghiaccianti riguardo ai rituali qui svolti. Si racconta che i frati prendessero il bambino nato
dall’atto sacrilego e, riunitisi intorno ad un fuoco, se lo passassero di mano in mano fino a farlo mo-
rire dopodiché lo bruciassero e, divenuto polvere, lo mettessero in un catino o in un fiascone (detto
anche “barilotum”) con del vino. Tale impasto veniva poi distribuito ai frati in luogo della comu-
nione. Questa macabra usanza venne comunemente chiamata “comunione col fiascone” o “comu-
nione del barilotto”, dal nome del tradizionale recipiente di capienza variabile che veniva utilizzato
a tale scopo. Negli anni il termine “barilotto”, oltre ad indicare lo strumento rituale e lo stesso rito,
passò a determinare addirittura i luoghi dove simile cerimonia avveniva. Ancora oggi il nome bari-
lotto o barlozzo sta ad indicare una desueta cisterna d’epoca romana, sita a Cupramontana, dove se-
condo la tradizione si riunivano gli adepti della setta dei Fraticelli.
Le riprovevoli azioni peccaminose sopracitate sono solo alcuni esempi, ma tanti altri sono gli epi-
sodi descritti in numerosi libri e libercoli più o meno conosciuti: si legge di rivelazioni di demoni,
di illusioni fantastiche, di donne incinta da ben 45 anni e di molte altre nefandezze che non staremo
qui ad elencare. Di certo non tutte queste storie sono vere e non potremo mai avere la certezza che
quanto attribuito ai fraticelli delle nostre zone sia accaduto realmente. Solo una cosa non possiamo
negare: il fenomeno del fraticellismo si estinse dopo circa due secoli lasciando di sé una vergognosa
memoria, ma tanta curiosità nei ricercatori.


di Simona Bacci

 
NOTE

1 Massaccio è il nome dato, verso il IX secolo, al castello sorto sulle rovine dell’antica città picena
dei cuprensi montani. Nell’anno 1861, in base alla testimonianza di numerosi e importanti reperti,
questo antico borgo ha potuto ripristinare il suo nome originale: Cupra Montana.

2 Menicucci Francesco, Memorie istoriche dé beati Giovanni e Matteo da Cupra Montana eremiti
camaldolesi, Tip. Eredi Biasini, Cesena 1790.

3 Tesei Bresciano, Le Grotte dei Frati Bianchi, Arti Grafiche Jesine, Jesi 1993; cit. pp 29-30.

4 San Giacomo della Marca, Dialogo contro i fraticelli, Edizione critica di Dionisio Lasic, Bibliote-
ca Francescana, Falconara Marittima, 1975.

5 I “Fraticelli” santi o eretici?, Atti del Convegno (Cupra Montana, 3 ottobre 1997), a cura di Ric-
cardo Ceccarelli, Tip. Leopardi, Moie di Maiolati Spontini, 1998; cit. p. 32.

 

 BIBLIOGRAFIA

Tesei Bresciano, Le Grotte dei Frati Bianchi, Arti Grafiche Jesine, Jesi 1993.

Fabio Mariano, L’Eremo delle Grotte di Cupramontana, Il lavoro editoriale, Ancona 1997

Armando Ginesi (a cura di), Eremo dei Frati Bianchi, Poesia e Immagine di uno Spazio Sacro, Cu-
pra Montana, 1995.

Riccardo Ceccarelli (a cura di), I “Fraticelli” santi o eretici?, Atti del Convegno (Cupra Montana,
3 ottobre 1997), Moie di Maiolati Spontini, 1998.

Réginald Grégoire (a cura di), I Fraticelli di Maiolati: società ed eresia nel tardo medioevo, Atti
della Prima giornata di Studio (Maiolati Spontini, 5 novembre 2005), Comune di Maiolati Spontini,
2007.

 

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